lunedì 4 luglio 2016

Bene Gesserit 3/4

...che poi diciamocelo: a me 'sto titolo manco piace.
Dune è una parte intoccabile del mio immaginario adolescenziale (anche se finire il libro è stata un'impresa epica paragonabile alla scalata del K2 con scarpette di vernice infiocchettate), però le Bene Gesserit in fondo le ho sempre trovate un po' lugubri e mafiose, per quanto dotate di un innegabile potere.
E' la Litania contro la Paura, il motivo principale per il quale le ho scelte quale simbolo delle Donne Che Hanno Influenzato La Mia Vita, quella che ho tenuto appena in casa mia in bella vista per anni.

Ma bando alle ciance!
Siccome col caldo è arrivata la pigrizia e con la pigrizia è calata la voglia già esigua di scrivere, per questo post baro immondamente copincollando qui di seguito il racconto che dedicai quando ero giovine (per cui diciamo alcuni anni fa) alla terza Donna Che Ha Influenzato La Mia Vita, ovvero mia Nonna Maria.

Non ci crederete, ma si intitolava:

NONNA MARIA

Nonna Maria. Mai due parole come queste mi sono sembrate tanto lineari e nello stesso tempo tanto inadeguate per definire quella che è, con un’evidenza sconcertante, proprio mia nonna, la mia irriducibile nonnina ultranovantenne.
Per un curioso scambio del destino, da qualche anno abita dove sono nata io, proprio sopra la fornace di Valle Aurelia.
Ed io, mi spiega, con sua somma soddisfazione ora vivo dove lei più si augurava per me, vicina al suo amato Borgo.
“Ci andassero le tue zie in quei bei pensionati fuori porta! Io sono nata col cupolone negli occhi, e così voglio morire, potendolo guardare tutti i giorni.” mi dice mostrandomi l’invidiabile panorama di San Pietro che si gode dal suo balcone.
Piccola, indomita nonna Maria: le sue parole, i suoi ricordi, a volte penso, hanno contribuito alla mia crescita metabolizzandosi prepotentemente in me non meno degli un po’ grevi, ma saporosi ed irresistibili piatti romaneschi che fin dalla più tenera infanzia mi ammanniva, per la disperazione dei miei genitori salutisti.
“A Roma non si rinuncia. A Castello non ci rinuncia, chi c’è nato come me. Che poi io veramente sono nata a Portico D’Ottavia,” si schermisce “ma a due anni ero già a Borgo. E borghiciana sono e morirò.”
“D’altra parte, Borgo l’abbiamo fatto anche noi: avrai studiato certo di Francesco Mochi, il grande scultore. Lo conosci, no?”
Lo conosco, lo conosco, sospiro fra me. E anche se qualche “oscuro” critico d’arte come per dire l’Argan o Zeri se ne fosse dimenticato, come avrei potuto farlo io, con Maria che me ne parla dalla nascita? Maria: così sono abituata a chiamarla fra me, semplicemente, in un rapporto nel quale il carattere e la sua estrema lucidità rifiutano ogni condiscendenza, qualsiasi senso di protezione. Non nonnina, ma Maria: come un’interlocutrice alla pari; al di là del tempo.
“Francesco Mochi fu un grandissimo scultore, il più grande del suo tempo. Va’ a vedere a San Pietro, va’ a vedere la statua della Veronica, quant’è bella! Se non fosse stato per quel ruffiano del Bernini…”
Trasecolo. Ma nonna, il Bernini…
“Lascia sta’.” mi zittisce lei “Se non era per lui, che stava sempre in giro ad arruffianarsi il Papa, a quest’ora il colonnato era del Mochi. Altro che!”
Nella sua espressione accigliata, come spesso accade, c’è l’eco di antiche liti, risentimenti secolari. D’altra parte la famiglia di Maria, la mia famiglia, sembra destinata ad avere dei bau bau eccellenti. Un altro è nientedimeno che Giolitti.
“Quel magnaccia” lo etichetta risoluta lei “ha ammazzato nonno, lo sai, no?”
Sì: un altro Mochi, Giovanni, il nonno di Maria.
“Che è stato lui a costruire ai Prati di Castello; hai visto a Piazza Risorgimento quella bella Madonnella all’angolo? Quella di mosaico? Quella l’ha fatta mettere lui. Era religiosissimo…e ricco e stimato. Finchè Giolitti non gli mangiò tutti i soldi, con quella storia della Banca Romana, e lo rovinò.”
Rovinato, sì: e conosco pure il resto della storia. Di come tirò avanti qualche altro anno, schiacciato dalla vergogna di un codice d’onore di un tempo che fu, finché in una tiepida mattina di primavera non andò al Verano, e lì sulla tomba dei suoi rimase a pregare a lungo.
“E poi si prese il sublimato. Ci avvertirono dal San Giovanni, con uno dei primi telefoni a Roma, sai, noi ce l’avevamo” ricorda Maria con un’incongrua punta d’orgoglio “ma non c’era più niente da fare: gli aveva bruciato le budella, povero nonno.”
Una lacrima dopo quasi un secolo, e dopo una rapida preghiera per una povera anima e forse anche un’ultima segreta maledizione per quello che fu il capro espiatorio di uno dei primi scandali economici della storia contemporanea, Maria come è nel suo stile scaccia da sé i ricordi tristi. E mi mostra una bella collana d’ambra.
“Bella, vero? L’ho presa da Nardeo. Era accanto a Bocconcelli, la più bella galleria d’Arte Sacra che c’era a Borgo Nuovo…”
Un momento, un momento: cerco di capire. Borgo Nuovo, Borgo Vecchio…
“Stai parlando della Spina di Borgo?”
“Certo! Che altro?” si spazientisce lei “Borgo Nuovo, la parte a destra, era la più elegante, tutta a portici. C’era Carnevali, uno dei primi fotografi di Roma, quello che ha fatto la foto quando mi sono sposata…Anche se mica è stato tanto bravo: lì sto proprio male, ti pare?” aggiunge con un pizzico di civetteria.
Io, che conservo come tutti i suoi nipoti una copia della famigerata fotografia, non posso darle torto, anche se segretamente penso che quel marito palesemente più giovane di lei, alto, biondo e con gli occhi verdi, bello come un divo del cinema muto, la dica lunga sullo spirito di questa sposa rotondetta, alta sì e no un metro e mezzo, e costantemente adorata per quasi mezzo secolo.
“Molti fra i negozianti erano amici di famiglia” prosegue Maria “Rosa Zanazzio era amica mia, e Bice Fallani, delle Lanerie…Bocconcelli poi faceva le Madonne ed i rosari più belli di Roma…”
Gli occhi di Maria, nel raccontare, brillano d’entusiasmo come dovevano brillare quelli di una ragazzina di fronte a quel lussuoso ed invitante campionario. Eppure per me, sua nipote, è già Storia quel pomeriggio d’inverno in cui…
“…il Cardinal Borgoncini irruppe nell’Oratorio dove facevamo le prove per il coro, ed entusiasta annunciò: - “Grazie alle preghiere vostre e nostre, la Conciliazione si farà!”-
“Co’ le mia non de certo” replicò mentalmente Maria, contravvenendo per la stizza al divieto per le educande di esprimersi in dialetto.
Ma si fece, e per Maria iniziarono gli anni dell’esilio. Un esilio relativo, a ridosso del suo amato Borgo, prima al numero undici della Via Aurelia, poi al numero quarantuno, dopo che
“…a Mussolini gl’avevano detto che il nostro palazzo aveva una struttura tutta in ferro, e allora buttò giù pure quello, per recuperare il metallo per la Patria…ce c’aveva in testa, io non lo so.”
Il numero quarantuno di Via Aurelia, che io ho fatto in tempo a visitare, presentò però un imprevisto e prezioso vantaggio: confinava con il territorio Vaticano, esattamente dove poi sorse la Sala Nervi.
Così, “quando i Tedeschi scendevano giù da Villa Abamelek, dove stavano loro, per i rastrellamenti, tutti gli uomini di casa correvano da noi, e buttandosi giù da un certo finestrone che c’avevamo in cortile stavano nel territorio del Papa, e non li potevano più prendere.”
Ferma a Porta Cavalleggeri, Maria guardava passare le truppe, i carri armati con quella rabbiosa impotenza che molti devono aver provato in quegli anni.
“Non potevano bombardare il Vaticano, almeno così dicevano, ma Borgo e tutto il resto sì. E c’avevano pure mira: sai come lo chiamavamo l’aereo che arrivava tutti i giorni alle undici?” mi chiede “Spizzacantoni!”
Sarà senz’altro per campanilismo, ma un certo spirito romano non manca mai di provocarmi un’ orgogliosa e frenata ammirazione.
“Non c’era nessuno di noi che avesse un vetro intero, e tutte le persiane bruciate. Ogni giorno arrivavano convogli coi feriti del fronte di Frascati, diretti al Santo Spirito, al Fatebenefratelli ed agli altri ospedali. Bisognava stare attenti.”
A cosa?
“A non scivolare: lasciavano una striscia di sangue per terra…Una volta dalla finestra ne vidi uno, che penzolava fuori: c’aveva gli occhi aperti, sembrava mi guardasse. Era giovane, e così bello, Robbè…non sembrava neppure morto.”
Chiude gli occhi appena, sospira in quel modo di commuoversi appena accennato di chi ne ha viste tante.
“Durante la guerra era proprio brutto,” ammette “e dopo coi tedeschi era pure peggio.”
Finché un giorno:
“Dovevo andare a prendere del cibo da una parente che c’aveva un orto in campagna, ma fuori c’era una retata. Le altre non volevano che uscissi, ma io avevo tua madre e le tue zie piccole, e avevamo fame. Così andai: arrivata nel cortile me li trovai davanti. Mio cognato, il Sor Cesare, c’aveva un’officina di meccanico, e quelli stavano lì perché volevano che gli riparasse un carro…hai voglia a spiegargli che non c’erano più uomini per lavorare, quelli volevano fare un macello…Erano proprio carristi,” precisa “me l’ha spiegato dopo tuo nonno: avevano una divisa blu con una certa striscetta al collo e ai polsi…Ce n’era uno, doveva essere il comandante. M’è venuto di fronte, e m’ha chiesto come mi chiamavo. Maria, ho risposto. E quello giù, con una risata che, Robbe’, ti faceva gelare le ossa. ‘Maria: cattolica!” ha osservato sprezzante.
Un attimo di pausa, uno sguardo fisso agli occhi di lei.
“Allora” disse “per questo tu non hai paura di morire?”
Fu qualcosa in quella beffa che dovette ridare coraggio a Maria. Che di colpo smise di tremare, e sostenne il suo sguardo, ferma.
“Paura di morire?” ribatté “Io sono una madre, comandante. C’ho una bambina di due mesi: prende ancora il latte, e se muoio, muore pure lei.”
A quelle parole il soldato ritornò serio.
“Io Hans.” mormorò. Di colpo si frugò nella tasca della divisa.
Porse a Maria la foto di una donna pressappoco della sua stessa età: in braccio teneva un bambino.
“Mia moglie, mio figlio.” spiegò “Bombardamenti, a Berlino: morti.”
“Mi dispiace. Davvero.” replicò contrita Maria, restituendogliela. Poi si rianimò.
“Tanto qui semo tutti morti. Quanto ci vuo’? Una settimana, un mese?”
Era sincera, e stremata: dalla fame, dallo sforzo continuo di soffocare l’angoscia.
Hans la fissava.
« No.” ribattè piano ”Tutto finito.”
La sua voce si abbassò ancora di più.
“Stanotte: noi andare via.”
Maria non parve affatto rassicurata.
“Se voi andare via,” osservò replicando l’italiano approssimativo dell’altro “ci tagliate tutto: l’acqua, la luce. E poi ci fate salta’ per aria, no?”
In quel momento un soldato si avvicinò, portando in mano un fiasco ed un bicchiere pieno di vino rosso. Dopo un rigido saluto militare, Hans lo tracannò d’un fiato. Di nuovo rise. Maria lo fissava immobile: nel contegno di quell’uomo, come del resto in quello dei suoi compagni d’armi, c’era la stessa spietatezza marziale e sgangherata insieme, che acuiva la sua paura.
“No!” rise l’altro “Finito: tutto finito!” esclamò “Dove abiti tu?”
“Qui vicino.” fece lei, vaga.
“Ecco: stanotte tu sentire. Io passo sotto casa tua con i miei carri, e poi andare via. Via!”
Di nuovo la salutò, scattando sull’attenti.
“Addio,Maria, cattolica!”
Maria non se lo fece ripetere due volte.
Quella sera su addormentò contenta di essere scampata ad un pericolo che per molti altri si era rivelato fatale, ma di fatto senza neppure tenere in gran conto ciò che aveva sentito, un’ennesima giravolta in quell’altalena di speranze frustrate che durava da quasi un anno, ormai.
Ma alle tre di notte un rumore la svegliò. Tutta la famiglia corse alle finestre: una colonna di carri armati rombava sopra il pavè.
In piedi, sull’attenti sul primo mezzo, lo sguardo irrigidito all’orizzonte: nel buio Maria riconobbe Hans.
Passavano sotto le loro finestre; sparirono nell’oscurità. L’eccitazione non permise a nessuno di riaddormentarsi: sembrava che tutta Roma aspettasse assieme a loro, in silenzio. Dopo mezz’ora un altro rombo li fece trasalire.
Un’altra esigua colonna: di nuovo Hans, ma Maria rivedendolo non se ne stupì. Anni di esperienza di regime avevano abituato lei come tutti a quell’espediente, che consisteva nel far passare uomini, aerei e mezzi pù e più volte in un’ampia traiettoria circolare, in un millantato spiegamento di forze.
Apparivano da Porta Cavalleggeri, sfilavano per Borgo come in un tardivo sberleffo all’autorità spirituale di Roma, poi risalendo l’Aurelia sparivano verso la campagna.
Ancora ed ancora, ma alle cinque tutto tacque. Dietro le finestre il popolo borghiciano vegliava, sospeso nel silenzio. Ad un tratto, una voce:
“E’ finita!” urlò “Partigiani, venite fora: li tedeschi so’ iti a mori’ ammazzati!”
Un coro di improperi la sovrastò: tutti avevano riconosciuto un certo Mario, sospetta spia della Milizia, ed in effetti quello era stato un trucco già ampiamente sfruttato nei mesi passati per rastrellare gli uomini della Resistenza. Ma fra le voci, Maria ne riconobbe una, femminile, che riuscì a sovrastare le altre.
Era Ada, la fruttarola, che lei conosceva da bambina.
“No! E’ vero, è tutto vero!” piangeva di gioia la donna, trafelata “So’ ita ai Mercati Generali: ho visto gli americani! Ariveno: gli americani ariveno!”
E di fronte all’autorità di quel responso, la gioia di Borgo esplose.
Era il quattro giugno del quarantaquattro.
Fu la fine di un incubo, come questa è la fine del racconto di Maria. Anche se non l’ammetterebbe mai, parlare l’ha stancata, ed anche l’aria sul suo balcone comincia a rinfrescare. Prima di rientrare fissiamo ancora insieme, sospeso nell’imbrunire, il “cupolone”.
“Quella è casa mia, Robbe’.” mi ripete Maria “La casa più bella del mondo. Ed è anche la tua: devi ricordartelo sempre, ed esserne felice. Io lo sono: e tu no?”Ci vuole coraggio per ammettere di sentirsi felici. Molto, nel decimo decennio della propria vita, quando la vita è per la massima parte prescrizioni mediche, ed attesa; abbastanza a trent’anni, quando ad una consapevolezza da poco acquisita già si aggiunge una prudenza scaramantica. Ma oggi, una volta di più, devo al coraggio e alla forza di Maria una briciola della preziosa materia che è la felicità.

E per chiudere con parole di oggi, spero che questo spieghi, tra gli altri l'esistenza della donnina interiore, decisamente capitolina, che quando qualcuno prova ad intimidirmi sorridendo senza scomporsi replica:

"A coso, vedi de fa' meno lo splendido, che con mi' Nonna nun ce so' riusciti manco i nazzisti."